venerdì 24 maggio 2013

22 Marzo 2013



Cittadinanza politica nel Medioevo bizantino e islamico




Cittadinanza politica nel Medioevo bizantino e islamico

Giuliano Milani: il primo incontro del nostro seminario (4 marzo, Wickham/Ascheri) è stato dedicato alla nozione della cittadinanza in una fase antecedente alla formalizzazione teorica e pratica di tale concetto. Questo secondo incontro si concentra su un aspetto particolare della cittadinanza intesa come “mestiere” del cittadino, ovvero l’esperienza della rivolta. Per certi aspetti la rivolta costituisce un momento chiave poiché può generare (non sempre ci riesce) nuove possibilità di appartenenza. La rivolta anche per questo non costituisce un argomento neutro nella ricerca storica perché più di altri temi attrae proiezioni ideologiche da parte di chi la studia: implica cioè una riflessione serrata su quale sia il “carattere” della rivolta (sociale, politica etc.). L’attenzione alle interpretazioni storiografiche delle rivolte, prestata da Marco Di Branco nelle sue ricerche sulle realtà urbane bizantine, in particolare Atene, e da Patrick Lantschner nel lavoro sulla rivolta dei Ciompi, è la ragione principale per cui è sembrato opportuno affidare a loro la trattazione di questo argomento.  

Patrick Lantschner: Rationalities of Revolt and the Political Order of Cities

L’esistenza di teorie diverse ma convergenti che si sviluppano attorno agli atti di resistenza evocano una lunga tradizione di rivolte nelle città italiane e del Vicino Oriente. La comparazione tra queste realtà è resa legittima da elementi comuni, come l’eccezionale densità di popolazione in contesti urbani, che caratterizza, nell’epoca basso-medievale, l’Italia centro-settentrionale e le città medio-orientali nel panorama mediterraneo, se non mondiale. Violenti conflitti politici caratterizzano entrambi i contesti, e vi sono interessanti analogie e differenze tra le strutture politiche urbane: la differenza principale è che le città del Vicino Oriente non hanno un assetto comunale di governo urbano come in Italia, perché sono amministrate dall’elite militare mamelucca. Dunque le rivolte, che in Italia sono dirette contro il governo cittadino, sono viceversa, nel contesto urbano medio-orientale, rivolte contro un sovrano o contro una fazione della elite dominante. Vi sono però sorpendenti analogie: in entrambi i contesti, il mondo urbano è popolato da molteplici realtà associative (religiose, economiche, politiche, di vicinato) coinvolte nel governo della città caratterizzato da una natura policentrica. La rivolta, in entrambi i contesti, coinvolge tutte queste realtà associative. Analogie vi sono anche nel variegato panorama giuridico composto sia nel Basso Medioevo italiano che in quello medio-orientale da un groviglio di consuetudini, di leggi secolari e sacre.

Lantschner si interessa non tanto a un paragone tra assetti articolati di leggi, quanto piuttosto tra pratiche che sviluppano i cittadini delle realtà urbane di questi due contesti, per inquadrare le quali trova adatte quelle che nella terminologia weberiana e più recentemente di David d’Avray sono definite come ‘razionalità’. Con questo termine Lantscher intende manifestazioni ripetute e coerenti del pensiero implicanti principi generali, che fungono anche da linee guida del comportamento. Alla base delle rivolte urbane medievali dei due contesti in analisi si incrociano due differenti tipi di razonalità definiti da Weber e d’Avray come ‘l’agire razionale strumentale’ (che tende a scopi specifici ed è puramente funzionale), e l’‘agire razionale rispetto al valore’ (che rimanda a sistemi di convinzioni), che rispettivamente si manifestano nelle regole strumentali alla formazione di coalizioni ribelli e nelle regole di valore che soggiacciono alle specifiche forme di violenza organizzata nelle rivolte di questi ambiti storico-geografici.
Le rivolte in esame non sono animate da turbe incontrollate, ma da una chiara coscienza degli obiettivi da raggiungere da parte dei ribelli. Questo operare strategico rimanda inevitabilmente alla natura policentrica dell città, nel senso che le coalizioni ribelli affondano le proprie radici nelle realtà associative multiple della città. La rivolta si qualifica come una prosecuzione e un’intensificazione della politica di negoziazione portata avanti da queste realtà associative; non si pone quindi in contrapposizione ma in integrazione dell’agire politico dei cittadini. Dal raconto di Ibn Sasrā  (studioso del diritto islamico attivo verso la fine del XIV secolo) della rivolta di Damasco del 1389-90, si evince che le coalizioni conrapposte si organizzano attorno a basi di potere urbano consolidate, come avviene per Minṭāsh, sostenuto dai quartieri periferici di Damasco, e, sull’altro versante, per il sultano, sostenuto dal quartiere di Ḥārat Kilāb, legato al gruppo tribale dei Qays. Anche le associazioni di mestiere dei cambiatori, dei fabbri e dei commercianti di legname svolgono un ruolo importante in questo conflitto. Ibn Ṣaṣrā afferma che le fazioni reclutano sostentori ‘setta (ṭaifa) per setta, mercato (sūq) per mercato, quartiere (ḥāra) per quartiere’. Il quartiere di Damasco al-Ṣāliḥiyya, in particolare, può essere assunto come caleidoscopio delle realtà associative urbane, soprattutto per il peso che qui rivestono i gruppi organizzatisi attorno alle madrasas e alle moschee. Queste rappresentavano canali di accesso alla detenzione di cariche politiche per uno dei fondamentali gruppi sociali delle città medio-orientali, quello degli ʿulamāʾ studiosi e diplomati nelle scuole di diritto. I quartieri, nell’aministrazione mamelucca, erano fondamentali unità fiscali, militari e giudiziarie, e potevano perciò costituire terreno fertile per il fiorire di azioni collettive. Una lunga tradizione stabiliva a Damasco che un intero quartiere potesse essere punito per un omicidio, pagando collettivamente la pena imposta. Un ruolo importante era qui rivestito anche da bande paramilitari (zuʿr), che insorgevano cavalcando proteste citadine contro impopolari politiche fiscali.

 E’ chiara la strumentalità dei movimenti insurrezionali che possono essere avvicinati in questa accezione alle rivolte delle città italiane e fiamminghe. Lantschner sottolinea nel dettaglio le analogie che vede in particolare con la rivolta trecentesca dei Ciompi. Nonostante le ovvie differenze tra strutture politiche pre-esistenti a Damasco e a Firenze, in entrambi le città le rivolte poggiano sulla precedente azione delle unità associative urbane. Latntschner contrappone il modello politico di Firenze alla Verona tardo-medievale e della prima età moderna, dove realtà associative pure vitali hanno un ruolo inferiore nelle rispettive politiche cittadine, dando vita a contrattazioni mediate molto più che a vere e proprie rivolte organizzate. Un quadro simile potrebbe essere quello che caratterizza negli stessi secoli la vita politica del Cairo.

Se queste sono le comuni linee strumentali di organizzazione della rivolta urbana, da quali convinzioni erano sostenute e a che valori tendevano? La richiesta e difesa della giustizia è un comune e ricorrente motivo legittimante delle rivolte italiane e medio-orientali. Questo è vero per la rivolta dei Ciompi, ma anche per rivolte damascene verificatesi a cavallo tra Quattro e Cinquecento, che traggono spesso spunto dall’azione giudiziaria: l’imputazione collettiva a un quartiere di un reato e la conseguente composizione collettiva della pena che viene imposta rapresenta in più di un’occasione il fattore scatenante di una rivolta. Al di là delle analogie, la giustizia comunale italiana e quella dele città islamiche, pur condividendo un certo poilicentrismo e un certo pluralismo normativo, presenta sostanziali differenze.
In conclusione: elementi di affinità tra l’azione politica comunale italiana e quella delle città medio-orientali possono essere rintracciati nel legame delle rivolte con le pre-esistenti realtà associative, di cui la ribellione rappresenta spesso un momento di intensificazione e prosecuzione. Anche l’inquadramento della rivolta in regole e in categorie definite da parte del pensiero giuridico rappresenta un elemento comune, e si manifesta in particolare in una riflessione sul diritto di resistenza. Ciò che più colpisce è la comune integrazione della rivolta in processi politici ordinari, anziché rappresentare un’aberrazione o una negazione dei meccanismi politici all’interno dei quali si situa. 

Marco Di Branco: Cittadinanza e rivolte nel Medioevo bizantino. 

Prende in esame la rivolta di Nika verificatasi nel 532 a Costantinopoli, di cui gli interessano soprattutto i protagonisti, i personaggi, le guide, i δῆμοι legati all’ippodromo, che contaminano e connotano politicamente il mondo tardo-antico del circo. Come si evince dagli Anecdocta di Procopio di Cesarea, che viene sottoposto a un analisi serrata, si tratta di un tema che trascende i fatti specifici e le stesse mura costantinopolitane, perché le fazioni dell’ippodromo che vengono alla luce in questo celebre scontro sono in realtà diffuse in tante altre città dell’Impero bizantino, persino in realtà urbane, come quella della Atene tardo-antica, in cui un ippodromo non esisteva. 

La vita politica delle città bizantine e il ruolo che in essa hanno rivestito le cosidette fazioni del circo è stata oggetto di intenso dibattito storiografico negli ultimi secoli. Alla lettura svalutante prevalsa nel Settecento (Voltaire, Gibbon), e anche nell’Ottocento che tendeva a presentare la storia di Bisanzio come una brutta copia di quella di Roma, si sono sostituite, nel corso del Novecento, articolate interpretazioni (Uspensky, Grégoire, Ostrogorsky) dello scontro politico e del significato stesso delle fazioni: è stato di volta in volta sottolineato il radicamento territoriale delle fazioni nel tessuto urbano bizantino, il coinvolgimento dei suoi componenti nelle milizie cittadine o in compiti concreti come la costruzione delle mura; l’ispirazione religiosa monofisita e ortodossa, il profilo sociale latifondista e commerciale di questi schieramenti. E si tratta solo di alcune delle linee interpretative assunte per spiegare gli scontri politici Che, in seguito, una parte della storiografia sovietica ha cercato di riallacciare alla tradizione rivoluzionaria. 

Una svolta radicale nell’approccio allo studio delle fazioni e degli scontri nelle città bizantine si ha negli anni Settanta del Novecento con la pubblicazione del libro di Alan Camaron, Circus Factions: Blues and Greens at Rome and Byzantium (1976), che contesta l’idea di un radicamento territoriale di questi schieramenti dell’ippodromo. Smontando la lettura politica della storiografia novecentesca. Cameron invoca il concetto di “hooliganism”, svilisce a tifosi da stadio le fazioni dei Blu e dei Verdi, con un’interpretazione che, seppure comprensibilmente vuole prendere le distanze da letture troppo ideologiche della storia di Bisanzio, giunge tuttavia a una semplificazione eccessiva degli scontri bizantini. Il recente libro di Gilbert Dagron, L'hippodrome de Constantinople. Jeux, peuple et politique (2011) rappresenta uno sforzo importante di inquadrare nei corretti termini storico-politici gli scontri bizantini: Dagron si distanzia dalla visione di Cameron che riduce i δῆμοι a bande di hooligans, e ripoliticizza in modo nuovo questi movimenti, sottolineando per esempio l’adesione di Giustiniano a una delle fazioni e il suo ruolo negli scontri e soprattutto attingendo alla categoria di mob cittadino elaborata da Eric Hobsbawm in I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale. Con il mob Hobsbawm aveva cercato di spiegare i moti di rivolta urbani verificatisi agli albori della Rivoluzione industriale –  che definiva pre-politici per indicare non l’assenza di idee politiche, di cui queste sollevazioni erano invece portatrici, ma il carattere primitivo, non evoluto di tali sollevazioni sociali. La stessa categoria aiuta a comprendere le rivolte urbane bizantine e gli schieramenti del circo e le loro rivendicazioni. 

In qualche modo connessi a questo genere di atteggiamenti sono anche le fazioni di sofisti nell’Atene del V secolo, dove esistevano raggrppamenti di studenti che davano vita a veri e propri riti di iniziazione e combattimenti. Anche questi scontri sono stati sviliti da alcuni autori che li hanno definiti playworks, giochi goliardici analoghi a quelli caratteristici di ambienti universitari moderni. In realtà è riduttivo anche in questo caso usare categorie anacronistiche, perché siamo di fronte, come nel caso delle fazioni dell’ippodromo, a forme di ritualizzazione di conflitti già esistenti nella città classica Questi movimenti vanno letti sullo sfondo della disgregazione della città classica che, a partire dal III secolo, passa per smembramenti e per la sostituzione delle antiche strutture di inquadramento della società urbana con nuove modalità. La fondazione dell’Università di Costantinopoli da parte di Teodosio II contribuisce alla crisi di Atene nel V secolo, dove le strutture caratteristiche della polis vanno incontro a un processo di smantellamento  che vede la ritualzzazione di elementi già funzionali alla vita politica. 

Discussione: Nel corso della discussione interviene Sandro Carocci, che interroga Di Branco sulla cautela che occorre prestare a fonti come gli scritti di Procopio di Cesarea e  fa rilevare a Lantschner alcune implicazioni del modello di Verona come città in cui i conflitti passano attraverso i canali ordinari e non sembrano suscitare rivolte. Luca Loschiavo fa notare a Di Branco la presenza nell’età giustinianea di compagnie territoriali armate formate da giovani, forse connessa alle fazioni del circo. Jean-Claude Maire Vigueur sottolinea l’importanza, nell’approccio comparativo, della presenza di giovani (iuvenes) nelle rivolte mezionate. Marco Di Branco fa notare a Lantschner la presenza di correnti specificamente attente al problema della disubbidienza e della rivolta nella Damasco tardomedievale. Più in generale ci si chiede se si possa rinvenire una specificità della rappresentazione di un movimento politico come rivoltoso nei casi descritti, e Giuliano Milani nota come, prendendo le mosse dalle tracce di una nuova esperienza di cittadinanza, ci siamo ritrovati piuttosto a riflettere sulla presenza nei casi analizzati di istituzioni già esistenti, lasciti di epoche precedenti (le associazioni di mestiere, le scuole coraniche, le fazioni, le confraternite di studenti) capaci di condizionare gli sviluppi successivi, incluso l’esito delle rivolte.


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