IV Incontro – 24 maggio 2013
“Esclusione dalla
cittadinanza: forme di allontanamento materiale e perdita di diritti politici e
civili”
Giacomo Todeschini: “Corpora vilia. Postura economica,
appartenenza all’ordine naturale ed esclusione civica fra XIV e XVI secolo”
Reputazione e credibilità della
persona si fondano su basi economiche: analizza trattato senese De indiciis et tortura
di Francesco Bruni, della fine del
Quattrocento, ed in particolare le categorie di persone che, in base a questo
testo, potevano essere torturate: ‘viles’ e ‘ignoti’ divengono due categorie
che si sovrappongono.
L’esclusione viene in alcuni casi
ricondotta all’assenza di capacità intellettive (e conseguente incompetenza
economica): i cittadini esclusi appartengono a gruppi di cui non è
verificabile la capacità intellettiva. Intersezione
tra marginalità e natura, quanto la marginalizzazione sia legata allo ‘ius
naturae’. Lo interessa il processo di disumanizzazione che colpisce alcuni gruppi
sociali, le forme, in particolare, di animalizzazione con cui, a diversi
livelli, vengono ritratti i marginali che presentano, agli occhi di canonisti e
civilisti, caratteristiche fisiche di inaffidabilità/incompetenza economica. Esempio
degli usurai, che il II Concilio Lateranense del 1139 condanna, ricorrendo alla
definizione di insani/rapaci/infami, attraverso un vocabolario che sottolinea
la loro inumanità: vi è dietro una lunga tradizione testuale, che parte
quantomeno da Isidoro da Siviglia, in cui gli usurai vengono accostati a
categorie di animalità.
La sovrapposizione del diritto naturale
ai Vangeli, che opera il diritto canonico del XII secolo ed in particolare il
Decretum Gratiani, segna l’ingresso della natura nel regno dell’arbitrarietà: che
rapporto esiste tra la definizione canonista dello ‘ius naturae’ e la
definizione dell’usuraio come insaziabile e rapace? Lo ‘ius naturae’ è attratto all’interno di un campo discorsivo
culturale all’interno del quale gli si può far dire un po’ ciò che si vuole.
Esistono tutta una serie di azioni creditizie che implicano
il pagamento di interessi, ma che possono essere fatte nel bene della chiesa:
per esempio quando si tratta di recuperare dei beni ecclesiastici. Il problema
quindi non è l’usura, non il credito, è piuttosto l’inquadramento della
categoria di persone che praticano queste attività. L’attenzione si sposta
dalle pratiche ai soggetti che praticano quelle pratiche.
Ci sono dei comportamenti che appartengono alla natura
(compra-vendita) altri no (servitù). Per Thomas di Chobham (inizio Duecento),
gli usurai sono trasgressori perché si ribellano al diritto della chiesa
provocando uno scandalo. Il peccato, per Chobham, è nudità, deformità, una via
per la fuoriuscita dalla natura umana. Il peccato fa dell’uomo una creatura
nuda e irriconoscibile. Interessante la metafora monetaria usata per descrivere
la deformità che investe il peccatore: come avviene per la moneta da cui è
scancellata l’immagine dell’imperatore, il peccatore perde l’immagine e non
viene più riconosciuto da Dio e dagli altri. Una metafora analoga è contenuta
anche in una palea del Decretum. Secondo Chobham, il peccato trasforma in
animali, trasforma in nullità, bisogna amare il prossimo solo se il prossimo
somiglia a Dio, altrimenti no.
Enrico da Susa, intorno alla metà del Duecento, sottolinea la bontà dell’azione creditizia se
compiuta nell’interesse della Chiesa; rappresenta un’azione appartenente a
pieno titolo all’ordine di natura, se da essa si trae vantaggio.
Nella seconda metà del XIII secolo, Remigio de Girolami
afferma che il comportamento usurario è contra natura vegetabilium- si oppone
cioè alle pratiche economiche buone che sono fruttifere (i termini fruttuoso/fertile
sono in generale parole molto ricorrenti). Per stabilire l’appartenenza/non
appartenenza alla natura si assume quindi il criterio della produttività o improduttività: chi non
produce è sterile, infruttuoso, così l’usuraio che è sterile perché il suo denaro
non è denaro ‘vero’.
Analizza una serie di testi letterari: caso celebre di
animalizzazione è quello di Vanni Fucci, che Dante ritrae in una tana, come una
bestia. A metà del Trecento, la trasgressione economica viene rafffigurata come
oscura bestialità, è un discorso che trascende l’opera dantesca. Boccaccio ritrae
coloro che si arricchiscono non per avidità, anche se il guadagno va oltre il
bisogno e anche se prestano denari a terzi. Siamo di fronte a una sorte di
secolarizzazione dei discorsi ecclesiastici: la pratica economica
dell’accumulazione del profitto può essere buona o cattiva, non lo è in sè, ma
alla luce dell’indole delle persone che gravitano su questo tipo di affari.
Le prediche di Bernardino da Siena, nella prima metà del
Quattrocento, parlano molto di economia, ed è intenso il ricorso che in esse si
fa agli animali per condannare comportamenti economici aberranti: l’avaro,
l’usraio, hanno una natura aberrante, perché è aberrante la natura di certi
comportamenti economici. Disumanità di certe persone e comportamenti, come nel
caso delle donne che hanno la coda.
Il paragone tra questi testi di provenienza diversa
(dottrinario-giuridica, letteraria, religiosa) è interessante per gli
interscambi linguistici che esistono tra essi, e perché consentono di
identificare la contemporanea rilevanza di alcuni temi in settori diversi.
Discussione:
Emanuele Conte: si chiede se questa eco di argomenti tra settori
diversi, su cui tanto insiste Todeschini, rimandi a una centralità del diritto
nel pensiero basso-medievale e ad una sua influenza in altri campi.
Sandro Carocci: lo interessa il testo di Bernardino da Siena,
all’interno del quale il riferimento alla grotta e alla tenda davanti
all’ingresso gli sembra di carattere tecnico, e non necessariamente alludente
al discorso dell’animalità. L’usuraio lavora dietro a una tenda per non farsi
vedere e il riferimento alla spelonca rimanda piuttosto alla segretezza
dell’attività.
Giuliano Milani: richiama l’attenzione sul testo di Boccaccio
e sulle eccezioni al peccato di avarizia. Si chiede se esistono dei precedenti,
non rinvenendosi questa idea in Dante, per esempio.
Giuliano Milani: “Tra bando e scomunica: forme di esclusione dalla
civitas e dall’ecclesia”
Il tema è la relazione tra sistemi di esclusione
ecclesiastici e comunali nelle città italiane del Duecento. Questa relazione è
indagata sia in termini di analogia funzionale (in cosa si somigliano queste
due sfere), sia di reciproche influenze (come si modificano vincendevolmente).
Il contesto scelto vede una compresenza strettissima di due ordini giuridici.
Quanto all’analogia ad accomunare bando e scomunica è il
carattere in negativo, il fatto di consistere in un’esclusione da qualcosa (la
comunione, il godimento dei diritti di cittadinanza), che li differenzia in
modo profondo dalle pene dei moderni ordinamenti. Non sono pene, ma un modi per
costringere qualcuno a obbedire. Questo costringere qualcuno a obbedire privandolo di ciò che
gli si dà abitualmente, questo escludere dal patto chi non lo rispetta rendono
bando e scomunica uno strumento politico fondante, quello che Mary Douglas
invoca per la creazione delle istituzioni e che Giorgio Agamben pone
all’origine della categoria del politico.
Supporre che bando e scomunica siano espressioni di questo
tipo di meccanismo che serve alle istituzioni ( a ogni istituzione) per
stabilire il perimetro che la definisce, consente di risolvere alcuni problemi
che si sono spesso presentati nella storiografia.
Uno è quello delle origini, che diventa un falso problema:
non è infatti possibilie supporre che che siano nati solo in culture germaniche
o latine o ebraiche e così via, sono nate molte volte.
Un altro problema è quello della variazione di livelli di
gravità ovvero dell’esistenza di bandi medicinali e mortali, scomuniche e
anatemi. Sebbene in molti momenti queste distinzioni sono formalizzate in
realtà sono continumente poste in discussione, perchè in ogni provvedimento di
questo tipo coesisteno sempre, magari in dosi diverse, una promessa di
reintegrazione e una minaccia di esclusione definitiva.
Quanto alle influenze reciproche, è molto difficile decidere
se il bando crea la scomunica o viceversa perchè da tempi molto antichi ( le
fonti che conosco risalgono almeno al secolo IX) sono usati insieme come parte
di un sistema caratterizzato dall’”ambiguità delle istituzioni” che sono sia laiche sia ecclesiastiche. È molto utile
però capire come la riflessione maturata in uno dei due campi poi vada a finire
nell’altro. Così per esempio la chiesa prende dal mondo diciamo laico l’idea
che la scomunica sia la conseguenza della rottura di un patto, in questo caso con
Dio. Viceversa il bando assume dalla scomunica elementi penitenziali, che si
concretizzano, per esempio nel confino visto come purgazione.
I contatti si intensificano in due momenti particolari. Il
primo è negli anni 1180-1190 quando si rafforzano notevolmente i tribunali
ecclesiastici e comunali dopo la morte di Enrico VI. A questa fase risale la
riflessione sul ruolo che in questi provvedimenti ha la contumacia. Un secondo
momento è quello successivo alla morte di Federico II, quando la dottrina per la
prima volta, con l’Ostiense, stabilisce che gli scomunicati non possono
contrarre obbligazioni e che chi ha contatti con gli scomunicati deve essere
colpito. In questo nuovo clima nel Urbano IV riesce a creare delle parti guelfe
in Toscana e dopo di lui si diffonde una nuova persecuzione, al tempo stesso
civile ed ecclesiastica, dei sospetti di connivenza con i nemici politici.
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